“IL LAVORO. IERI, OGGI E DOMANI?” UNA RIFLESSIONE DI APERTAMENTE ORVIETO NEL GIORNO DELLA FESTA DEI LAVORATORI

di Alessandro Volpi

Niente come il primo articolo della Costituzione Italiana descrive così magnificamente quello che è l’impianto di idee e valori che stanno alla base della nostra Repubblica per come i padri costituenti, all’indomani della riuscita vittoriosa contro la barbarie fascista che aveva affamato e distrutto la nostra cara Patria, seppero pensarla. Quel nesso istituito nel comma due fra sovranità del popolo e costituzione descrive perfettamente il senso della parola democrazia che compare invece nel primo comma, che è appunto la possibilità di autodeterminarci come corpo politico collettivo, nei limiti però dei principi stabiliti dalla costituzione, quindi della legge, che garantisce che l’esercizio della volontà individuale e collettiva non vada a ledere le libertà individuali, che l’arbitrio del potere non soffochi le aspirazioni di tutti i consociati.

Ma il primo articolo della Costituzione fa riferimento anche ad un altro termine fondamentale – ed uso questa parola non a caso – dato che si dice che la Repubblica è “fondata” sul lavoro. E proprio oggi che è il primo maggio, la Festa dei Lavoratori, è bene che ci soffermiamo a riflettere su questo fattore, sul significato che riveste nella nostra società, sul suo passato, presente e futuro, o “ieri, oggi e domani?”, come recita il sottotitolo dell’edizione 2020 del Festival del Dialogo promosso dalla nostra associazione, che speriamo possa svolgersi nel mese di ottobre.

Pensare al passato del lavoro significa, per esempio, interrogarsi sulle ragioni che portarono alla definizione del lavoro come uno dei fondamenti della nostra Repubblica e chiedersi cosa si intende con questa espressione. La Costituzione democratica e repubblicana, con i diritti che sancisce è il risultato di una lotta plurisecolare. Se l’affermazione dei diritti civili e politici proviene dalle rivoluzioni cosiddette borghesi del XVIII secolo (anche se ebbero la necessità di essere riaffermati nel novecento contro i regimi fascista e nazista che li aveva messi in discussione) il tema del lavoro era in un certo senso una novità. Era circa un secolo che la questione sociale era diventata la vera protagonista della politica europea, grazie alla lotta che il movimento dei lavoratori aveva ingaggiato per il proprio riconoscimento, per un miglioramento delle condizioni di lavoro, per i salari, la tutela della salute e della sicurezza e anche per una maggiore democratizzazione degli spazi del lavoro. Alla luce di questa storia, fatta di sangue versato, di repressione ma anche di solidarietà e di dignità della gente comune che rivendicava il possesso del frutto del proprio sudore, il significato del lavoro come fondamento della nostra Repubblica può essere meglio compreso.

Quel lavoro è certamente inteso in primo luogo come attività umana attraverso la quale gli individui e le comunità forgiano il mondo in cui vivono, trasformano la realtà, le danno una forma umana e così costruiscono il proprio futuro. Il lavoro è la massima dignità dell’uomo e della Repubblica perché è lo strumento con cui si può umanizzare il mondo, renderlo migliore e più adeguato al progresso della civiltà.

Ma questa consapevolezza non è neutra, e allora, se letta attraverso la lente delle lotte dei lavoratori stare dalla parte del lavoro significa anche sancire il principio per cui il lavoro deve essere realmente, concretamente, degno dell’essere umano. Stare dalla parte del lavoro significa combattere costantemente per rimuovere quelle diseguaglianze (e qui va letto con l’articolo 1 anche l’articolo 3) che rendono indegna la vita umana, significa stare dalla parte del lavoratore che rivendica il frutto della propria fatica. Significa, detto in altri termini, garantire quei diritti sociali che, in ambito costituzionale, sono la vera grande novità del XX secolo.

La Festa dei Lavoratori, che oggi celebriamo, ci ricorda questa storia, e questa memoria ci invita a non abbassare la guardia, anzi, a guardare con realismo la desolante condizione del presente del lavoro. Veniamo da una crisi decennale che può “vantare” il triste traguardo di aver insieme indebolito le tutele dei lavoratori, contratto i salari, ridotto l’occupazione e al contempo degradato la struttura produttiva del paese, in un circolo vizioso aggravato stesse cure che – come ormai sostengono gli stessi medici che le hanno imposte – hanno solo peggiorato la condizione del malato. Su questa crisi, la cui timida ripresa ogni anno annunciata era poco più che un fuoco di paglia, si è scagliata negli ultimi mesi la devastante tempesta della pandemia da Covid-19. Anche in questo senso i primi dati e le stime per questo 2020 sono disastrose, si parla di una riduzione dei consumi per Marzo del 30 % rispetto all’anno precedente, di previsioni di un crollo del Pil superiore al 10 % nel primo semestre e vicino al 6 % per l’intero anno. Numeri a cui solo un pesante intervento statale di sostegno alla domanda e alle imprese può sopperire per evitare la catastrofe. Non ci dilunghiamo in questo luogo su di un’analisi o giudizio sugli strumenti che il governo e l’Unione Europea stanno mettendo in campo, ma quello che di cui siamo certi è che senza un radicale cambio di paradigma le conseguenze sociali sarebbero devastanti.

E veniamo qui all’ultimo punto, al futuro del lavoro. Nel sottotitolo del Festival del dialogo su “domani” avevamo messo un punto interrogativo, che tragicamente oggi si rivela ancor più forte, dato che non è per niente assicurato un domani al lavoro. Se infatti i processi in atto in termini di progressi tecnologici e trasformazioni economiche globali già imponevano di ripensare le modalità tradizionali di concepire il lavoro, questa tendenza in atto è radicalmente accelerata dai cambiamenti che si sono imposti con l’isolamento negli ultimi due mesi (pensiamo solo all’implementazione obbligata dello smart working) e con i cambiamenti che la gestione della pandemia imporrà nel futuro prossimo. Se la condizione del lavoro era già critica, cioè imponeva un ripensamento, una decisione per uscire dalla situazione di crisi, lo stato attuale ha reso questo ripensamento e queste decisioni di vitale importanza. Come ci insegna la medicina, tanto più una crisi è acuta tanto più è importante intervenire con rapidità e con decisione perché l’alternativa che si impone è quella fra la vita e la morte.

Per questo crediamo fermamente sia necessario aprire un dibattito radicale che raccolga tutte le migliori energie e intelligenze del paese, ma anche, nel nostro piccolo, del nostro territorio orvietano, per riprenderci in mano il nostro destino. Continuare a “vivacchiare” sperando che vecchie ricette possano risolvere nuovi problemi non è più possibile. Noi ci metteremo, come sempre, tutto il nostro impegno.