Perché parlare di spiritualità

di Massimo Marchino – psichiatra e promotore dell’iniziativa del 13 dicembre 2013

«Abbiamo incominciato a parlare di spiritualità non appena iniziarono i primi incontri dell’associazione culturale che, per il resto, si è confrontata preferenzialmente su questioni di natura socio-politica.

Tutti coglievamo in questo argomento qualcosa di innovativo, forse senza saper dire bene il motivo, anche perché le ragioni per cui veniva sostenuto erano diverse per le diverse persone.

Facendo una semplificazione delle differenti posizioni ne individuerei due in particolare. Da una parte c’era chi vedeva in questo argomento una questione che stava all’interno del proprio orizzonte di riferimento. Sono quelli che appartengono all’area cattolica  o, comunque, chi vede nella spiritualità la riscoperta di un valore proprio della nostra tradizione che diventa un riferimento importante in una fase storica contrassegnata dallo smarrimento ideale. Altri hanno abbracciato l’idea di confrontarsi sul tema della spiritualità perchè rappresenta il tentativo di far avvicinare due sponde diverse, quella laica e quella cristiana in  particolare, che abitualmente sono state distanti e confliggenti.

La mia personale motivazione non si riconosce propriamente in nessuna delle due posizioni descritte. Non mi sento di appartenere al primo gruppo e, per quanto possa trovare interessanti gli argomenti del secondo, non sono state quelle le ragioni che mi hanno affascinato sul tema della spiritualità.

Questa parola, tutte le volte che  mi ci sono imbatto nel passato, immediatamente mi ha evocato la percezione di qualcosa attinente alla religione e, pertanto, qualcosa per cui nutro un profondo rispetto ma che non sento mi appartenga. Nella cultura Cristiana lo Spirito è l’elemento caratteristico del soprannaturale e nell’animo dell’uomo è presente nella misura in cui esiste un contatto con la divinità. Nel mio modo di vedere chi aderisce ad una cultura laica non ha fede in Dio, o dubita della sua esistenza, e non gli appartiene l’idea della spiritualità. Tutto questo per me è sempre apparso chiaro nei termini che ho descritto ed ho, in tal senso, mantenuto lucidamente sempre una mia coerente scelta laica.

Una scelta di campo, per altro, che trovava in me non solo una argomentazione logica, ma soprattutto una inclinazione assolutamente spontanea. Nel senso che mi sento spinto da un orientamento interiore verso posizioni laiche, al di là o ancor prima di un argomentare di tipo razionale.

In oltre, l’aderire a questa visione si legava e trovava mutuo sostegno in una percezione naturalistica del mondo  ed in una percezione causalistica del succedersi degli eventi, della storia, dei fenomeni sociali, personali e biologici.

Tuttavia, questo atteggiamento causalistico/naturalistico ad un certo punto è stato messo dentro di me fortemente in discussione e non sulla base di ragionamenti astratti ma su questioni pratiche riconducibili alla mia attività professionale. Mi prendo pertanto lo spazio per aprire una parentesi sulla mia esperienza professionale perché possa meglio chiarire il mio pensiero.

Io esercito la professione di medico e sono specialista in psichiatria, disciplina di confine, sempre un po’ in crisi, che attinge da un lato da radici biologico/mediche e dall’altro da radici attinenti all’area psico-sociale. Un po’ scienza della natura, un po’ scienza dell’uomo. Possiamo dire con una estrema semplificazione che la Psichiatria, quando lavora con i farmaci, guarda al cervello ed ai meccanismi biologici, quando lavora attivando percorsi psico-sociali, guarda soprattutto alla parabola esistenziale dell’uomo ed alle sue implicazioni. Nel primo caso si coglie la natura materiale dell’uomo, nel secondo caso la dimensione non materiale che include ma trascende il biologico. Trovare collegamenti tra questi due diversi approcci può forse apparire più facile di quello che è in realtà. Nella pratica, nel momento di attivare interventi integrati si sente, al di là di fattori contingenti, il contrasto tra paradigmi profondamente differenti.

Il paradigma biologico che guida l’intervento psicofarmacologico risulta certamente la parte più scientifica della Psichiatria. Più facilmente riconducibile a modelli di tipo matematico. Quando si oltrepassa il confine di questo ambito ci si inoltra in territori sempre meno definibili in termini marcatamente razionali e causalistici. Facilmente si perdono stabili punti di riferimento sia sul piano individuale, del singolo professionista, sia nell’ambito dell’equipe di lavoro, dove come naturale coesistono punti di vista differenziati.

A complicare ulteriormente il cammino scatta abitualmente un equivoco di fondo dato dal tentativo di applicare anche nell’ambito psico-sociale modelli di riferimento matematici. Come se si potesse ricondurre ad una equazione matematica la parabola della vita di una persona. Come se dare una spiegazione secondo un’ipotesi causalistica di un evento umano fosse sovrapponibile a dare un senso e comprendere l’essenza di quell’evento stesso. Come se l’esistenza fosse riducibile a qualcosa di tecnico di cui un tecnico può renderci ragione.

Alla fine, almeno per me, è risultato chiaro, che l’integrazioni dei due tipi di interventi in ambito Psichiatrico, quello biologico/farmacologico e quello psico-sociale/psicoterapeutico, devono passare attraverso l’assunto di paradigmi diversi di cui gestire tutte le possibili incoerenze. Il primo paradigma è rigorosamente scientifico, incline a seguire coerentemente dei modelli matematici. Il secondo, pur non rinunciando ad un rigore logico, si svincola dai modelli matematici ed utilizza altre qualità umane che non possono essere facilmente inscritte nelle azioni misurabili di una ricerca scientifica: l’intuizione, la sensibilità, l’empatia, il rapporto umano.

Ora, chiudendo qui la parentesi aperta sulla mia esperienza professionale, vorrei trarre almeno una considerazione. L’idea che mi sono fatto attraverso questo mio personale percorso è che i modelli scientifici, seguendo i loro implacabili passaggi razionali, possono migliorare la nostra condizione umana da un punto di vista materiale, possono introdurre cambiamenti rivoluzionari nei nostri stili di vita, ma, almeno ad oggi, non ci aiutano a cogliere il senso più profondo della vita. Questo, secondo me, resta legato ad una ricerca che procede per approssimazioni correlate alle esperienze personali che inesorabilmente trascendono i modelli matematici.

Quest’ultima considerazione rompe il sodalizio tra la mia cultura laica e la mia iniziale natura che ho definito, più per motivi intuitivi che profondamente ponderati, naturalistico/causalistica. Anzi quest’ultima considerazione mi avvicina fortemente agli argomenti sostenuti da coloro che credono nell’esistenza di Dio. Come loro infatti prendo le distanze dalla scienza come sistema di produzione di conoscenze capaci di far capire l’essenza della natura umana, indipendentemente che la natura umana sia solamente umana o presenti anche qualche scintilla divina.

In altri termini così come un uomo di fede nega alla scienza il primato per esprimersi sull’esistenza di Dio e sul senso della sua fede, per cui l’esistenza di Dio non è dimostrabile scientificamente ma non può essere dimostrato scientificamente neanche la non esistenza. In una direzione simile anche io sono portato a negare alla scienza la capacità di poterci dare il senso più profondo della parabola esistenziale di un uomo ed offrirci l’essenza della vita.

Il fatto di riconoscere questo scatto nel mio modo di vedere che, seguendo il verso descritto, mi ha avvicinato ai credenti, non ha però cambiato per nulla la mia posizione laica.

Si è tuttavia modificato il mio modo di percepire la spiritualità. Se prima infatti sentivo la spiritualità come qualcosa che non mi apparteneva ora la sento molto più vicina. Mentre prima pensavo alla spiritualità come una rappresentazione propria del credente, ora ritengo che anche un laico può rivendicare una dimensione spirituale e può pensare di dialogare su questa linea di onda con un credente. E’ come se avessi sdoganato l’idea della spiritualità e mi ci volessi misurare alla pari con un credente senza un sentimento di inferiorità nei suoi confronti.

E’ da queste mie posizioni che ritengo opportuno un confronto ed un approfondimento sulla spiritualità tra laici e non credenti e, da lì, la proposta di un seminario in cui personalità collocabili nelle due diverse posizioni si possano incontrare, misurare e dialogare.

Certamente ci dobbiamo mettere d’accordo su cosa si intende per spiritualità. In tal senso, in attesa che il seminario si compia e ci possa offrire dei chiarimenti, cerco aiuto nel concetto che in ambito psicologico ha dato C.G. Jung. Secondo Jung la spiritualità è un precipitato inconscio, quindi attinente alla profondità dell’animo umano, a suo avviso ereditario, in tal senso universalmente presente negli uomini, capace di bilanciare le sollecitazioni pulsionali, con cui entra in conflitto, che spingono ad investire nella realtà materiale ed umana».